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Quando l’Italia vinceva con il catenaccio e la noia

Quando l’Italia vinceva con il catenaccio e la noia

18 Giugno 2025 | by Ludovico Picardi
Quando l’Italia vinceva con il catenaccio e la noia
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C’è stato un tempo — non troppo lontano e non abbastanza vicino — in cui l’Italia vinceva. E lo faceva nel modo più italiano possibile: difendendo, chiudendosi, aspettando l’errore dell’avversario e colpendolo con una precisione chirurgica che trasformava il cinismo in arte.

 

Era l’epoca del catenaccio, lo schema che ha reso celebre (e odiato) il calcio italiano in tutto il mondo. Un’era in cui il risultato contava più dello spettacolo, il portiere era più decisivo del fantasista, e l’1-0 era considerato una sinfonia.

 

Ma quell’Italia, che spesso suscitava noia negli altri e orgoglio in se stessa, ha lasciato un’eredità più complessa di quanto sembri. Perché dietro al mito del “non prenderle”, c’era una filosofia di vita. E forse anche un ritratto — impietoso ma autentico — del nostro paese.

Cos’era davvero il catenaccio?

Il termine ha avuto mille interpretazioni, spesso caricaturali. Per alcuni era solo un “parcheggio dell’autobus davanti alla porta”. Ma in realtà, il catenaccio era una strategia raffinata, basata su una solida organizzazione difensiva, marcature a uomo, libero staccato e ripartenze verticali.

 

Nato in Svizzera, cresciuto in Italia, perfezionato da Nereo Rocco e Helenio Herrera, il catenaccio divenne l’arma principale di un paese che non aveva il talento del Brasile, né la potenza della Germania. Ma aveva astuzia, lettura del gioco, capacità di soffrire.

 

Vincere 1-0 non era una scelta pigra, ma una dichiarazione d’intenti. E quella prudenza strutturale — figlia della cultura del “meglio evitare” — è diventata la cifra stilistica di un’intera generazione.

La noia come virtù tattica

Sì, l’Italia annoiava. Le sue partite erano spesso lente, compassate, dominate da una tensione che sembrava più da thriller psicologico che da evento sportivo. Ma proprio quella noia era il vero terreno di gioco.

 

Far sbadigliare l’avversario era parte della tattica. Abbassare il ritmo, spezzettare la partita, farla scorrere su binari mentali, era un modo per portare il match nel proprio habitat naturale: la lotta cerebrale. Una sfida che l’Italia sapeva giocare meglio di chiunque.

 

Non era un calcio per romantici. Ma era un calcio di risultati, e i risultati, per un po’, arrivarono eccome.

Le vittorie senza poesia

Dai trionfi di club in Coppa dei Campioni negli anni ’60 e ’80, alla Nazionale campione del mondo nel 1982, passando per i rigori di Italia ’90 e le finali sofferte degli anni 2000 — il calcio italiano ha scritto pagine leggendarie senza mai inseguire lo spettacolo.

 

Il tifoso italiano medio, cresciuto con l’ansia del contropiede e l’ossessione per il fuorigioco, imparava presto a godere del dolore controllato, del pareggio in trasferta, del gol in mischia. Non c’era bisogno di goleade: bastava un pallone sporco che entrava, e la domenica era salva.

 

Anche le schedine calcio dell’epoca riflettevano questo equilibrio instabile: tanti under, pochissimi gol, tripli strategici. Chi conosceva il DNA delle squadre sapeva che una partita noiosa spesso era anche quella giusta da giocare.

Ma davvero era solo difesa?

No. Dietro quel calcio apparentemente retrivo, c’erano anche giocatori geniali: Tardelli, Conti, Baggio, Donadoni, Pirlo. Ma erano artisti al servizio di una macchina più grande, costretti a lavorare nei margini di libertà concessi da una struttura collettiva ferrea.

 

Non era proibito attaccare. Era semplicemente più rischioso. E per un popolo abituato a diffidare dell’imprevisto, la bellezza doveva essere gestita. Sospettata. Contenuta.

Il catenaccio oggi: finito o evoluto?

Oggi si dice che il catenaccio sia morto. E in effetti, nessun allenatore lo rivendica più apertamente. Ma la verità è che non è mai del tutto scomparso: ha solo cambiato forma. Il “calcio reattivo”, il “blocco basso”, la “difesa posizionale” non sono altro che nuove etichette per antichi meccanismi.

Anche le migliori squadre italiane contemporanee sanno aspettare, soffrire e ripartire, pur parlando un linguaggio più moderno. E sebbene il pressing alto e il possesso abbiano guadagnato spazio, la prudenza strategica è ancora un pilastro della nostra scuola.

il mito di vincere senza incantare

L’Italia ha sempre avuto un rapporto complicato con la bellezza. Ne è custode, ma ne diffida. E il calcio non fa eccezione. Abbiamo costruito una narrativa in cui la vittoria vale più del modo in cui si ottiene, e in cui l’estetica è, al massimo, un premio accessorio.

Forse è per questo che il catenaccio ci somigliava così tanto: lento, astuto, chiuso e tenace. E anche se oggi guardiamo con ammirazione al gioco fluido del Manchester City, al pressing del Bayer Leverkusen o alle geometrie del Bayern — magari nel valutare anche i pronostici Bundesliga del fine settimana — in fondo ci emozioniamo ancora per un 1-0 difeso con i denti.

Perché quel tipo di calcio, ruvido e logico, ci ha insegnato a pensare prima di agire. A non fidarci mai troppo. A costruire il successo con la pazienza di un artigiano e la durezza di un montanaro.

E per quanto il mondo sia cambiato, un pezzo d’Italia continua a vivere lì, tra le linee strette di un catenaccio che non vuole morire.

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