Un tempo era il campionato più bello del mondo. Bastava dirlo così, senza vergogna e senza bisogno di grafici: la Serie A era lo spettacolo del sabato sera e la liturgia della domenica pomeriggio, il riflesso di un’Italia che, se non governava il mondo, almeno lo dribblava con stile.
Oggi, quel titolo suona come una beffa. La Serie A è diventata, per molti, una parodia sbiadita di sé stessa: scandali, bilanci falsati, impianti desolanti, presidenti improvvisati, regolamenti schizofrenici. Si fa fatica a capire se siamo dentro un campionato d’élite o in una tragicommedia amministrativa con pallone annesso.
La verità è cruda: il calcio italiano è in crisi strutturale, e non da oggi. Solo che ora, con la concorrenza della Premier, della Bundesliga, persino della Saudi Pro League, quella crisi si vede meglio. Fa più rumore.
Cominciamo dal luogo simbolico del calcio: lo stadio. Mentre in Inghilterra, Germania e Spagna si costruiscono templi moderni con ogni comfort, in Italia assistiamo a un lento declino edilizio. Stadi obsoleti, spesso comunali, incapaci di offrire esperienze degne del prezzo del biglietto.
A San Siro si litiga da anni su chi deve demolire e chi deve costruire. A Roma si parla di uno stadio nuovo dal 2009. A Firenze, il Franchi è un monumento… alla burocrazia. Intanto, tifosi sempre più disillusi preferiscono lo streaming illegale alla curva. Meno freddo, meno traffico, meno illusioni.
Un’altra ferita aperta è la gestione societaria. Troppi club affidati a presidenti senza competenze calcistiche, a fondi speculativi, a imprenditori in cerca di visibilità. Il risultato? Squadre con visione a sei mesi, allenatori bruciati alla quinta giornata, vivai trascurati e budget affidati più alla speranza che al business plan.
Nel frattempo, il modello sportivo italiano continua a ignorare l’industria del calcio. Nessun sistema di salary cap, pochi investimenti in scouting, strutture arretrate. E quando ci si accorge che il Sassuolo lavora meglio di club con dieci volte il bacino, si grida al miracolo. Ma non è miracolo: è programmazione.
Le recenti vicende giudiziarie, dalle plusvalenze gonfiate ai punti di penalizzazione a orologeria, hanno reso evidente una cosa: la giustizia sportiva italiana è un meccanismo inceppato, soggetto a pressioni, ricorsi e decisioni contraddittorie.
Le stesse norme vengono applicate con severità chirurgica a un club e con elasticità acrobatica a un altro. In questo clima di incertezza, persino i pronostici misti — quelli che uniscono partite italiane ed estere — diventano esercizi di equilibrio tra sport e caos.
Non si tratta di diffidare del sistema. Si tratta di non sapere nemmeno più quale sia il sistema.
Una volta esportavamo difensori e centrocampisti come il Barolo e il Parmigiano. Oggi, i nostri giovani crescono, sì, ma nelle Primavere iperprotette, dove si gioca bene ma non si lotta mai. Chi ha fame, va all’estero o si rifà il nome in Serie B o C.
La Serie A è diventata un campionato per giocatori esperti, spesso stranieri, che arrivano a fine carriera. I nostri, se non esplodono a 19 anni, vengono bollati come incompiuti. Eppure basterebbe guardare a modelli virtuosi come Atalanta o Empoli per capire che investire sui giovani non è utopia, è sopravvivenza.
Ultimo, ma non per importanza, è il problema culturale. I media continuano a raccontare il calcio italiano come se fossimo ancora negli anni ‘90, con titoloni epici per partite mediocri, polemiche settimanali su episodi VAR, e trasmissioni che sembrano talk show da condominio.
Nel frattempo, il vero calcio si consuma altrove: nei podcast indipendenti, nei thread su Twitter, nei canali Telegram di chi studia match e statistiche con più serietà di certi ex opinionisti. L’informazione sportiva mainstream è rimasta indietro, e con lei, parte dell’immaginario collettivo.
La Serie A può ancora essere un campionato all’altezza della sua storia, ma non senza cambiare pelle. Servono stadi nuovi, dirigenti competenti, regole chiare, investimenti seri. E serve soprattutto una narrazione nuova, più onesta, meno ideologica.
Finché continueremo a glorificare ogni pareggio in casa contro il Midtjylland, ci accontenteremo di troppo poco. Finché penseremo che basti cambiare il mister per sistemare una società, resteremo sempre a metà classifica dell’Europa calcistica.
Basta dare un’occhiata a come si lavora in Germania: lì il calcio si evolve, si investe, si programma. E anche quando si cercano pronostici Bundesliga, si percepisce subito un’organizzazione diversa, più solida, meno improvvisata.
Forse è il momento di smettere di chiamarla “Serie A” solo per nostalgia. O ricominciare a meritarci quel nome, tornando a costruire — non solo sperare.