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Serie A o serie da ridere? Crisi strutturale del calcio italiano

Serie A o serie da ridere? Crisi strutturale del calcio italiano

18 Giugno 2025 | by Ludovico Picardi
Serie A o serie da ridere? Crisi strutturale del calcio italiano
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Serie A o serie da ridere? Crisi strutturale del calcio italiano

Un tempo era il campionato più bello del mondo. Bastava dirlo così, senza vergogna e senza bisogno di grafici: la Serie A era lo spettacolo del sabato sera e la liturgia della domenica pomeriggio, il riflesso di un’Italia che, se non governava il mondo, almeno lo dribblava con stile.

Oggi, quel titolo suona come una beffa. La Serie A è diventata, per molti, una parodia sbiadita di sé stessa: scandali, bilanci falsati, impianti desolanti, presidenti improvvisati, regolamenti schizofrenici. Si fa fatica a capire se siamo dentro un campionato d’élite o in una tragicommedia amministrativa con pallone annesso.

La verità è cruda: il calcio italiano è in crisi strutturale, e non da oggi. Solo che ora, con la concorrenza della Premier, della Bundesliga, persino della Saudi Pro League, quella crisi si vede meglio. Fa più rumore.

Stadi vuoti e vecchi: la ruggine del nostro calcio

Cominciamo dal luogo simbolico del calcio: lo stadio. Mentre in Inghilterra, Germania e Spagna si costruiscono templi moderni con ogni comfort, in Italia assistiamo a un lento declino edilizio. Stadi obsoleti, spesso comunali, incapaci di offrire esperienze degne del prezzo del biglietto.

A San Siro si litiga da anni su chi deve demolire e chi deve costruire. A Roma si parla di uno stadio nuovo dal 2009. A Firenze, il Franchi è un monumento… alla burocrazia. Intanto, tifosi sempre più disillusi preferiscono lo streaming illegale alla curva. Meno freddo, meno traffico, meno illusioni.

Dirigenti improvvisati, strategie a vista

Un’altra ferita aperta è la gestione societaria. Troppi club affidati a presidenti senza competenze calcistiche, a fondi speculativi, a imprenditori in cerca di visibilità. Il risultato? Squadre con visione a sei mesi, allenatori bruciati alla quinta giornata, vivai trascurati e budget affidati più alla speranza che al business plan.

Nel frattempo, il modello sportivo italiano continua a ignorare l’industria del calcio. Nessun sistema di salary cap, pochi investimenti in scouting, strutture arretrate. E quando ci si accorge che il Sassuolo lavora meglio di club con dieci volte il bacino, si grida al miracolo. Ma non è miracolo: è programmazione.

La giustizia sportiva? Una farsa senza copione

Le recenti vicende giudiziarie, dalle plusvalenze gonfiate ai punti di penalizzazione a orologeria, hanno reso evidente una cosa: la giustizia sportiva italiana è un meccanismo inceppato, soggetto a pressioni, ricorsi e decisioni contraddittorie.

Le stesse norme vengono applicate con severità chirurgica a un club e con elasticità acrobatica a un altro. In questo clima di incertezza, persino i pronostici misti — quelli che uniscono partite italiane ed estere — diventano esercizi di equilibrio tra sport e caos.

Non si tratta di diffidare del sistema. Si tratta di non sapere nemmeno più quale sia il sistema.

Giovani talenti: crescono altrove

Una volta esportavamo difensori e centrocampisti come il Barolo e il Parmigiano. Oggi, i nostri giovani crescono, sì, ma nelle Primavere iperprotette, dove si gioca bene ma non si lotta mai. Chi ha fame, va all’estero o si rifà il nome in Serie B o C.

La Serie A è diventata un campionato per giocatori esperti, spesso stranieri, che arrivano a fine carriera. I nostri, se non esplodono a 19 anni, vengono bollati come incompiuti. Eppure basterebbe guardare a modelli virtuosi come Atalanta o Empoli per capire che investire sui giovani non è utopia, è sopravvivenza.

La narrazione tossica del “grande calcio”

Ultimo, ma non per importanza, è il problema culturale. I media continuano a raccontare il calcio italiano come se fossimo ancora negli anni ‘90, con titoloni epici per partite mediocri, polemiche settimanali su episodi VAR, e trasmissioni che sembrano talk show da condominio.

Nel frattempo, il vero calcio si consuma altrove: nei podcast indipendenti, nei thread su Twitter, nei canali Telegram di chi studia match e statistiche con più serietà di certi ex opinionisti. L’informazione sportiva mainstream è rimasta indietro, e con lei, parte dell’immaginario collettivo.

Serve un nuovo patto con il calcio

La Serie A può ancora essere un campionato all’altezza della sua storia, ma non senza cambiare pelle. Servono stadi nuovi, dirigenti competenti, regole chiare, investimenti seri. E serve soprattutto una narrazione nuova, più onesta, meno ideologica.

Finché continueremo a glorificare ogni pareggio in casa contro il Midtjylland, ci accontenteremo di troppo poco. Finché penseremo che basti cambiare il mister per sistemare una società, resteremo sempre a metà classifica dell’Europa calcistica.

Basta dare un’occhiata a come si lavora in Germania: lì il calcio si evolve, si investe, si programma. E anche quando si cercano pronostici Bundesliga, si percepisce subito un’organizzazione diversa, più solida, meno improvvisata.

Forse è il momento di smettere di chiamarla “Serie A” solo per nostalgia. O ricominciare a meritarci quel nome, tornando a costruire — non solo sperare.

 

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